Ore 20.
Palermo è devastata da un’ alluvione che fa migliaia di morti e provoca gravi danni alla struttura edilizie e all’economia della città. — L’ occasionale rinvenimento della relazione di Pietro Agostino, Maestro razionale del Regno, umanista e collezionista di antichità, inviata al viceré Juan de la Cerda duca di Medinaceli il 7 ottobre 1557, permette di ricostruire l’ evento, e di comprenderne l’impatto sulla città. Agostino inizia il suo racconto delineando le cause idrogeologiche che hanno provocato l’ inondazione. Le acque meteoriche da Monreale s’ incanalarono nella depressione che porta alla fossa della Garofala (
viale delle Scienze) e scesero nell’ avvallamento posto nei pressi della chiesa di Nostra signora de Ytria o della Pinta (
Porta di Castro) da dove, utilizzando una canalizzazione sotterranea (C
ondutto di maltempo), giunsero sino alla chiesa di San Sebastiano e al piano del Tarzanà per riversarsi in mare. Il Senato di Palermo, conscio del pericolo, aveva costruito nel 1554 un muro-diga a due miglia dalla città all’ altezza del ponte di Corleone per intercettare le acque che scendevano da Monreale e scaricarle nel fiume Oreto. La messa in sicurezza di quest’ area della città è legata alla fase espansiva economica e demografica che caratterizza la Palermo del Cinquecento. Nel 1505 gli abitanti della città ammontavano a 25 mila anime, mentre nel 1570 saranno 70 mila. Un motore di crescita formidabile che promuove un rinnovamento della struttura urbana cittadina. Palermo si accinge a diventare una città rinascimentale al pari delle altre realtà urbane italiane ed europee. Bisogna recuperare aree destinate all’ edilizia abitativa, come quelle che insistono nell’ area del Kemonia, tradizionalmente sottoposte a inondazioni in caso di maltempo, marginali rispetto alla città medievale felicemente collocata su uno sperone roccioso che la mette al riparo dalle alluvioni. Bisogna favorire la lottizzazione e la speculazione edilizia poiché la città ha fame di spazi edilizi. Un evento meteorico eccezionale mette in crisi sia il muro-diga, sia i palazzinari. Tra il 21 e il 22 settembre 1557 inizia a piovere senza alcuna pausa sino al 27 quando le precipitazioni s’ intensificano rovesciando sulla città e il contado «
acqua senza fine et cum vehemenzia extrahordinaria». Il muro-diga di ponte di Corleone non riesce a contenere la piena e l’ acqua scolma verso la fossa della Garofala e si accumula nella depressione sotto le mura della città sino a toccare i quattro metri di altezza. Al tramonto del sole del 27 le precipitazioni assumono le caratteristiche di un nubifragio e il muro-diga cede. L’ onda di piena con il suo carico di fango e detriti si riversa verso la città «con multa furia» e intorno alle 20 colpisce le mura all’ altezza della chiesa dell’ Ytra, spesse un metro e ottanta, come un maglio provocando una breccia lunga quarantaquattro metri e alta quattro (ampia circa 176 metri quadri) spandendone i detriti per un’ area di circa 80 metri. Testimoni impotenti alcune persone che erano sugli spalti del palazzo reale che non poterono fare altro che gridare il loro terrore mentre crollavano la chiesa dell’ Ytria e cinquecento case «de novo fabricate» travolgendo tutti gli abitanti. L’ onda di piena si riappropria del corso del Kemonia continuando il suo percorso sino a Ballarò e allagando la piazza che insiste sul fronte della chiesa del Carmelo. Prosegue per Rua Formaggie la Ferraria (
via dei Calderari) danneggiando il monastero della Martorana e quello della Moschitta oltre a far crollare molte case. Incanalandosi per la via dei Lattarini l’ acqua si divide in più braccia: una parte allaga la Vucciria vecchia, mentre un’ altra distrugge i magazzini di frumento vicino la chiesa di Nostra signora della Misericordiaei depositi di legname. Le travi trasportate dalla furia della piena martellano come degli arieti le case e le botteghe della Loggia (il cuore pulsante della finanza palermitana) e ne fanno crollare quattordici. L’ onda di piena s’ incanala, quindi, nella strada della Merceria per dirigersi verso la Cala dove, abbattendo le mura vicino alla Dogana vecchia, esaurisce la sua corsa devastatrice gettandosi in mare. La massa d’ acqua che si è riversata nelle strade della città è imponente dato che raggiunge nelle strade coinvolte un livello che oscilla tra un metro e mezzo e tre metri. Le prime luci dell’ alba illuminano una città devastata e invasa dal fango e dai detriti: i cadaveri giacciono nelle strade, nelle chiese, sotto le macerie e nel mare, dove galleggiano accanto alle carogne degli animali sorpresi nelle stalle. Agostino riesce a descrivere l’ orrore di quell’ evento con poche ed efficaci parole:
«horribile la obscurità della notte, li terremoti delle case che cascavano, li stridi de li homini, li ululati delle donne et lo spavento della morte con la continua pioggia». Il maestro Razionale fa un bilancio dei danni subiti dalla città: le vittime sono almeno duemila, gli animali da soma morti superano le 200 unità. La stima dei danni è di duecentomila scudi computando un migliaio di case completamente distrutte, oltre tremila salme di frumento irrecuperabili, merci, tessuti, arredi di numerose case scomparsi nel fango. Il Pretore e i giurati palermitani organizzarono i soccorsi ripulendo le strade, puntellando le case pericolanti e, soprattutto, facendo seppellire i morti. Un vero e proprio flagello di Dio che il cardinale di Palermo esorcizza imponendo tre giorni di penitenza, confessioni, digiuni e partecipazione a processioni. Fonte:
Repubblica.it