Il 21 marzo 1968 la città di Genova fu colpita da uno tra gli eventi geo-idrologici più disastrosi della sua storia. Quel giorno, dopo oltre 18 ore consecutive di pioggia, dalla parete rocciosa della Collina degli Angeli si staccò una frana che precipitò sul piazzale dell’edificio al numero civico 8 di via Digione. Nel corso dell’Ottocento la zona della collina era stata trasformata da una serie di pesanti interventi. Innanzitutto l’uso intensivo delle cave di roccia calcarea che i genovesi utilizzavano già da secoli e la cui domanda era cresciuta per sviluppo urbanistico di quegli anni. Poi la costruzione di nuovi complessi abitativi, in quell’area destinati principalmente ai portuali, che portarono il tessuto urbano sempre più vicino ai cigli e alle basi dei fronti di cava. Il quartiere di San Teodoro, di cui fa parte la via Digione, fu costruito lungo il piede della “Cava Sivori”, dismessa nel 1909 per pericolo di frane. Il fronte della ex cava, lungo qualche centinaia di metri e alto una cinquantina, presenta strati di roccia calcarea alternati a sottili strati di materiale argilloso. La giacitura degli strati e l’alternanza fra rocce e argille, molto più suscettibili a franare, erano fattori che potevano favorire il distacco. Le autorità genovesi, preso atto di questa criticità, nel 1929 vietarono l’edificazione in prossimità dei fronti di cava, ma il provvedimento risultò tardivo poiché a quel punto molti palazzi erano, se non completati, in via di completamento. Tra questi il palazzo al numero 8, edificato a ridosso della parete, che fu ultimato nel 1931. Pochi anni dopo, proprio sopra lo stabile, una porzione della collina venne adibita a vivaio, con serre, impianti di irrigazione e terrazzamenti per la coltivazione. Intorno alle 18 del giorno del disastro, qualche condomino, messo in allerta dal perdurare della pioggia, notò che sulla parete di roccia e sulle murature dei terrazzamenti iniziavano ad aprirsi fessure via via sempre più larghe, e ciò indusse alcuni alla fuga. Pochi minuti dopo una lastra di roccia delle dimensioni di circa 50x60x5 metri, pari ad un volume di circa 15.000 metri cubi, si staccò dalla parete e colpì la base del palazzo, provocando in pochi secondi il crollo di un’intera ala composta da 34 appartamenti. Nella sciagura persero la vita 19 persone, tra le quali intere famiglie, e numerose altre rimasero ferite. Subito dopo la disgrazia vennero nominate diverse commissioni di inchiesta per stabilire eventuali responsabilità del disastro e per valutare quali interventi adottare per mettere in sicurezza gli altri palazzi situati in prossimità del fronte roccioso. I consulenti nominati dalla Procura della Repubblica conclusero che pur essendo nota la predisposizione al franamento degli strati rocciosi, gli ingegneri non avrebbero potuto prevedere quando la frana si sarebbe verificata né la sua entità, questione casomai di pertinenza di tecnici specializzati, che però non erano stati interpellati. Accogliendo questa ipotesi il giudice istruttore concluse l’azione penale senza nessun rinvio a giudizio in quanto il fatto non costituiva reato. Il procedimento civile finalizzato al risarcimento dei danni invece si protrasse a lungo. Secondo gli studi effettuati negli anni seguenti al disastro gli impianti di irrigazione dei vivai sovrastanti il palazzo avevano avuto una responsabilità diretta, ma per arrivare alla messa in sicurezza della parete si dovettero aspettare quasi dieci anni. Al condominio non fu riconosciuto alcun indennizzo e gli abitanti dovettero ricostruire a proprie spese l’ala distrutta, potendo rientrare nei loro alloggi solo nei primi anni ’80.
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