Nel 2023 ricorre il centenario del crollo della diga del Gleno. Un evento la cui conseguenza immediata fu l’elevatissimo numero delle vittime. L’elenco ufficiale ne conterà 356, ma, oltre a questo, il disastro rappresenta il fallimento dei controlli, e il prevalere delle norme ignorate e del potere dell’arroganza.
Siamo nell’Italia degli anni a cavallo tra XIX e XX secolo, un periodo durante il quale, di pari passo con la modernizzazione del paese, la richiesta di energia elettrica a uso industriale e civile era in continua crescita. La mancanza di risorse energetiche classiche quali carbone e petrolio aveva fin da subito indirizzato la produzione di elettricità utilizzando la fonte alternativa più abbondante e facile da reperire: l’acqua delle valli alpine. È questo il contesto nel quale, il 21 marzo 1907, l’avvocato Federici chiese e ottenne a nome di un cittadino svizzero, tal Giacomo Trumpy, la concessione per lo sfruttamento idroelettrico del torrente Povo a Pian del Gleno in provincia di Bergamo.
Nel volgere di pochi anni la concessione era passata di mano in mano, fino ad arrivare il 29 settembre 1916 alla ditta Galeazzo Viganò, proprietaria di importanti industrie cotoniere in Brianza. L’anno seguente la Viganò era stata autorizzata a costruire uno sbarramento per creare un invaso di circa 4 milioni di metri cubi d’acqua. Ma la realizzazione della diga era stata tutt’altro che lineare: i lavori erano iniziati nel 1919 e già nel 1920 la ditta aveva chiesto la modifica della concessione idraulica finalizzata a un maggiore sfruttamento del bacino. Questa modifica comportava la trasformazione della diga dal tipo a gravità (che contrasta col suo stesso peso la spinta dell’acqua) al tipo ad archi multipli (costruita con una forma che trasmette i carichi sulle fondazioni). Senza attendere l’approvazione del primo progetto esecutivo, e men che meno di quello della variante, sotto la spinta dei notevoli interessi economici e della crescente necessità di energia, nella primavera del 1923 si era arrivati al completamento dell’opera.
Il 23 ottobre dello stesso anno, a causa delle abbondanti precipitazioni, il bacino si era per la prima volta riempito interamente e gli sfioratori posti sul coronamento della diga avevano iniziato a scaricare. Questo evento era stato considerato come una sorta di collaudo per una diga unica al mondo, un inedito mix a gravità e ad archi multipli. Ma il collaudo non poteva dirsi superato in pieno, poiché si erano manifestati alcuni problemi negli sfioratori e, soprattutto, si erano verificate cospicue perdite sia dal paramento che alla base delle arcate. Sottostimando le conseguenze che sarebbero potute accadere, se non ignorandole del tutto, per superficialità o insipienza non erano stati presi provvedimenti e, complici le piogge autunnali e le prime nevicate, il lago era stato lasciato pieno d’acqua. Poi giunse la mattina del 1° dicembre 1923 e l’unico testimone oculare, Francesco Morzenti guardiano della diga, ebbe modo di raccontare cosa accadde:
“… sentii d’improvviso come una scossa nella passerella, senza rumore, e contemporaneamente nello stesso istante dall’alto cadere un sasso che piombò nell’acqua sottostante stagnante fra due piloni. […] Alzai la testa e vidi nella testata a valle del pilone (uno dei più alti) una striscia nera che dallo sperone saliva in alto in modo tortuoso. Saltai sullo sperone ed accesi il fiammifero ed osservai una crepatura in fondo larga circa tre dita e che salendo si allargava. Ebbi l’impressione che essa si allargasse continuamente”. […] Scappai subito verso la mia baracca. Ma dopo due piloni, dall’alto caddero davanti a me dei cornicioni; onde dovetti ritornare indietro, scendere lungo la sponda destra del fondo valle, e indi girare sotto uno sperone di roccia per ritornare verso la baracca.
Appena girato lo sperone di roccia sentii come un urto dietro la schiena che mi sospinse. Mi voltai e vidi che il pilone nel quale avevo verificato la crepatura si apriva metà a destra e metà a sinistra lungo detta crepatura e che gli archi ad essa appoggiati lo seguivano. Nel contempo l’acqua irruppe violenta al punto che non toccava la roccia per lungo tratto e faceva buio sotto di essa. La colonna mi passò di fianco. Io ripresi la fuga fino alla baracca, e lassù rivoltatomi vidi che dopo il primo pilone furono travolti d’un colpo tre o quattro piloni.
Il bacino si svuotò in circa 12-15 minuti. La diga era lunga 260 metri, larga alla base 15-20 metri. La parte rovinata è di 80-82 metri, e cioè dove i piloni erano più alti e dove alla base esistevano le maggiori fughe di acqua.” (Da http://www.scalve.it/gleno/)
A seguito del crollo circa 6 milioni di metri cubi di acqua e fango precipitarono a valle, preceduti da un forte spostamento d’aria che già di per sé risultò distruttivo. I centri abitati di Bueggio (Viliminiore di Scalve, BG), Dezzo (Colere, BG), Angolo Terme e la sua frazione Mozzunno (BS) e Corna (Darfo Boario Terme, BS) furono devastati dall’onda che, dopo 45 minuti e percorsi circa 20 Km, si esaurì nel lago di Iseo. Il numero ufficiale delle vittime, come detto, fu 356, anche se non fu mai possibile accertare la reale perdita di vite umane, che si stima siano state circa 500.
Il processo che seguì tentò di fare luce sulla causa della catastrofe. Come si può facilmente intuire le varie perizie sostennero diverse motivazioni, vi furono rinvii, testimonianze controverse e tentativi di mistificazione. Nel 1927 il tribunale di Bergamo riconobbe la colpevolezza di Alberto Viganò e dell’ingegnere Giovanni Santangelo, condannandoli a tre anni e quattro mesi di reclusione, oltre a una multa, al pagamento di tutte le spese e al risarcimento dei danni verso le parti lese.
Dalla relazione della commissione liquidatrice dei danni si viene a sapere che furono risarciti 650 danneggiati civili, per un ammontare di 6 milioni di lire interamente a carico della ditta Viganò. Per ogni vittima venne pagato un indennizzo diverso a secondo l’età e il sesso. (Tabella 1).
Il processo di appello che seguì si concluse con l’assoluzione dei due condannati, Viganò perché deceduto e l’ingegnere per mancanza di prove. Tutto fu messo a tacere dal regime fascista al potere in quegli anni, in quanto si riteneva che la cattiva pubblicità avrebbe “minato la credibilità della tecnica italiana”.
Per ragioni di stato le vittime del crollo della diga di Gleno non ebbero giustizia, e non sono state le sole. Negli anni a venire, altri terribili eventi hanno riproposto la medesima storia di predominio dell’interesse politico ed economico a scapito della salvaguardia della popolazione.
Tabella 1: Rimborsi per le vittime civili (in lire) tratta da Temporelli, 2011
I resti della diga in una immagine d’epoca tratta da Barbisan, 2007
FONTI:
U. Barbisan (2007): Il crollo della diga di Pian del Gleno: errore tecnico?. Cavriana (MN), Tecnologos Editore.
P. Soardo (2011): Il disastro della Diga del Gleno in Val di Scalve. In: Notiziario. Ordine degli ingegneri di Verona e provincia, n. 2/2011, pp. 36-59.
G. Temporelli (2011): Dal Molare al Vajont. Storie di dighe. Genova, Erga Edizioni.
http://www.molare.net/disastri_simili/disastri_gleno.html
http://www.scalve.it/gleno/
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